La Critica
Walter Pedullà: “ Questa Gioconda è quasi fatta a pezzi e poi rimontata.(…).
C’è l’amore, c’è molto eros nella lettera, nella metafora e nella musica di questi versi. E’ questo che cercano essi correndo verso il “vuoto del ventre”? O quel vuoto è anche la morte? Forse non così chiaramente semmai è la nascita e la rinascita. La nascita di una “vispa” poetessa che scrive per amore, compreso l’amore per la poesia, chiamata a riempire il vuoto della vita.”(1988)
Mario Lunetta: “Il discorso amoroso che attraversa tutto il libro non è immediatamente amore emotivo ma estraniante e questo la distacca dalla bava emotiva poetica degli ultimi anni. La Zagaroli intrattiene un rapporto lucido con le istanze scientifico-filosofiche. Rende omologhi il discorso amoroso e il discorso scientifico-filosofico. La poetessa costruisce una iperlingua convincente perché ha la capacità di utilizzare spezzoni di linguaggi dispersi e molto eterocliti per farli precipitare in una lingua riconoscibile non tardo simbolista né neoermetica ma costruttivista.”(1988)
Stefano Giovanardi: “Antonella Zagaroli è lontana dagli standard della sua generazione la sua è un’operazione culturalmente importante. Se a una prima lettura sembra seguire la tradizione dello sperimentalismo anni ’60, in realtà se ne distacca di molto perché il suo obiettivo è una ricostruzione della totalità linguistica.(…) I giochi linguistici non vanificano il senso dell’organizzazione sintattica ma tendono a corroborare il progetto complessivo.”(1988)
Valerio Magrelli: “Tra Valery, Corbin e il grande sabotatore Duchamp, è un lavoro davvero articolato e appassionante.”(1988)
Achille Serrao: “In questo testo poetico il verso è disteso, tenta la narratività talvolta, ha più un andamento dettato da sintonia con l’altro da sé piuttosto che manifestarsi terreno di situazioni negative com’è di tanta poesia contemporanea. (…) Questa poesia auspica una condizione di equilibrio, direi l’antico perduto, fra etica e esperienza contingente, io e altro da sé, individualità insomma e collettivo, scrittura e vita. (…) A lettura ultimata resta in bocca un che di dickinsoniano. Ed è possibile per il rilievo ripetuto interno al “femminile” di questa poesia, tutto assorbito e intorno al verso, come nella Dickinson, appunto.”(1996)
Dante Maffia: “Questo libro nasce dalla condizione che dentro l’uomo esistono mondi infiniti che si muovono e crescono, esistono terre sconfinate su cui fioriscono capricciosi fiori di una mitologia evanescente che però può trovare il varco per farsi cosa, corpo, e se vogliamo veramente sapere chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo, non bisogna più interrogare la teologia, ma il nostro corpo e ciò che dentro vi freme, interrogare la nostra energia, il nostro smarrimento (…) Questo libro ha qualcosa di conturbante e malioso, ma anche di irto, di velenoso: attrae e respinge, fa balenare al lettore di essere nel cuore del Dilemma e poi lo sospinge in un inferno d’indifferenza, non divina, non dorata (montaliana), ma indifferenza ispida, di cristallo non fragile.”(1996)
Pietro Civitareale: “Titolo che bene s’intetizza la specificità stilistica di questa poesia, la linea di continuità del suo essere tra pensiero e realtà, tra il sé e il fuori di sé.”(1996)
Giorgio Barberi Squarotti: “Un testo che ho letto con vivo interesse per il suo rigoroso andamento riflessivo, remoto da ogni cedimento alle emozioni, rivolto ad interrogare strenuamente il significato della vita e della stessa scrittura”(1996)
Mario Lunetta: “Il segreto di questi testi, schizzi veloci e persistenti, è la loro distratta crudeltà: nella luce tiepida di un segno che fissa la silhouette di un microevento come fosse un accadimento fondamentale. Il mondo in questi strani “racconti” che hanno l’aria di minuscoli referti da decifrare nel loro enigma, vibra su una capocchia di spillo. E’ questa fisionomia di epifanie minori, tutte bruciate nell’istante, che denuncia la loro provenienza dall’esperienza di Antonella, come scrittrice in versi. Il dato lirico, che qui si torce efficacemente in pura, casuale perfidia, non può che sciogliersi nel chiarore, spesso abbacinante, del poemetto in prosa.”(2002)
Antonio Veneziani: “Questi brevi testi, nei quali l’autrice ci fa vedere in un frammento, poesia, realismo, iperrealismo, surrealismo, ricordano le Favole crudeli di Stevenson.”(2002)
Lea Canducci: “Sono racconti-situazioni, stati d’animo, che lasciano una scia interrogativa, che non danno soluzioni, ma che stimolano l’immaginazione, dove tutto può essere possibile. L’uso di termini ambigui e ambivalenti arricchiscono e rinforzano il pregio di questa scrittura. Piena di odori, di colori, di sensazioni erotico-estatiche, di riflessioni psico-filosofiche.”(2003)
Gabriella Gianfelici: “Antonella Zagaroli, in uno stile accattivante e materno, colmo di simboli e suoni, di fusioni fra passato e presente, fra ritrovati profumi e memorie d’infanzie ci riconduce a gusci ovattati, di nuclei morbidi e potenti insieme, e possiamo così intuire i nostri molteplici stati, il nostro fluire ed essere sangue, desiderio, corpo.In questi racconti troviamo odori, sapori, il toccare, il suono, il nessun suono e possiamo accostarci, fotografando come fa Antonella, la nostra mutevole realtà.(…) La Zagaroli compie un piccolo viaggio dal quale non si ritorna come si era. Perché la scrittura svuota parte di se stessi.”(2003)
G. Devoto - Edizioni S. Marco dei Giustiniani: “C’è in questa raccolta una qualità intrinseca tutt’altro che modesta e anche quando nei versi vi sono immagini colte e letterarie esse sono così necessarie, “naturali” che la loro letterarietà scompare. Non vi è qui la ricerca dell’effetto fine a se stesso ma tutto quanto è scritto risponde ad una vera esigenza interiore (…) Mi piace, poi, il modo schivo di porsi in “mostra”, modo molto vicino alla nostra mentalità di liguri, per dirla alla Montale, “stondai”.”(2003)
Luigi Manzi: “Questa poesia ha molte valenze, ma a me viene in mente soprattutto l’eco (gli echi) di certo espressionismo nordico (tedesco, svizzero, belga) e tanti pittori, da Klee a Kandinski assorbiti nell’erotismo tragico e disperato di Egon Schiele, con loro nel corpo esangue della poesia nostrana, se si eccettuano alcune zone meno sorvegliate della poesia di Dino Campana e di Lorenzo Calogero.”(2005)
Stefano Giovanardi: “Questo è un libro difficile e in questa difficoltà rispetto alla media risiede la sua originalità. La media, infatti, tende a usare la poesia come qualcosa di definito a priori, qualcosa di un già dato, Serrata a ventaglio non dà nulla per scontato.
E’ un libro di autointerrogazione della voce stessa ma né in senso narcisista né in senso intimista.
Qui la poesia si chiede qual’è la propria origine, qual’è il proprio senso, qual è la propria destinazione e questo approccio non è molto diffuso nella poesia contemporanea, tanto meno nei coetanei di Antonella Zagaroli.(…)
Nel poemetto o lunga poesia dal titolo Primo alfabeto, posta a conclusione del libro, si parla dell’origine della poesia che viene da una “negazione”, da una contrapposizione fra ciò che è fuori dell’io e l’io stesso. La parola “spazi”, allora, posta nei versi iniziali e che poi percorre tutto il libro diventa fondamentale. In questo sforzo di individuare il momento generativo della poesia la Zagaroli ha trovato una chiave espressiva assolutamente originale.
Tutto il libro, peraltro, si posiziona in una terra di nessuno, un territorio in cui l’io non è più io e il non io non è ancora non io, è quello spazio che Heidegger avrebbe chiamato del “frammezzo” e lo spazio fra soggetto e oggetto diventa oggetto di poesia, viene drammatizzato.
Serrata a ventaglio va a cogliere lo statuto eterno del far poesia e lo fa proprio analizzandolo.(…)
Anche nelle altre sezioni del libro possiamo ritrovare l’idea del “frammezzo”.
Nella sezione Dove Mozart è bianco c’è la concentrazione analogica tipica della poesia italiana quindi a ridosso della soggettività, ma contemporaneamente si passa a piani di espressioni svincolati dall’io, entriamo nello spazio intermedio dal quale sembra scaturire una diversa forma di dizione poetica. Ne è esempio l’immagine polare ricorrente bianco/fuoco: il colore che è assenza di colori o compresenza di colori e il fuoco sostanza materiale. La poesia si accampa a metà fra la materia violenta, calda e l’immaterialità algida, astratta.(…)
Nella prima sezione quella che dà il titolo al libro c’è un descrittivismo schivo, come se la poesia non si accontentasse di ciò che descrive e come lo descrive ma tendesse a svicolare. Anche quando la volontà descrittiva sembra più piena, si ferma, evita di autocelebrarsi per risolversi in battute meditative, in notazioni emotive di stati psichici che interrompono il flusso descrittivo (“frammezzo”).(…) C’è sempre un contropedale che all’interno del fuori da sé (nel rapporto con la natura, per esempio) introduce il pedale del mistero, dell’insoddisfazione.(…)
La poesia di Antonella Zagaroli è una poesia complessa, multistrati e va letta tenendo conto delle stratificazioni, tenendo presente l’intenzione complessiva di far poesia interrogando la poesia.”
(stralcio dalla presentazione del 28 gennaio 2005).
Franco Loi dopo l’uscita del suo Quadernetto Dalìt scrisse di lei che è una poetessa fuori dal recinto e che in poesia compie un percorso spirituale (2007)
Plinio Perilli: Libro davvero ardito, ossessivo e risolto, paludato e ignudo, commosso e artificioso (quante aggettivali coppie ossimoriche ci viene ora da evocare!), questo con cui, dopo un silenzio di qualche anno, Antonella Zagaroli torna nell’agone scritturale e nella giostra cartacea, sùbito confessandosi stanca, forse perfino infastidita dall’usata poesia: “So che voglio scrivere una poesia non poesia. Perché? / Semplicemente per la tensione ingombrante che non mi fa nemmeno camminare. / Mi sento immensa. Una colite senza motivo che nessuno vede”…
Comincia così un coraggioso e munifico viaggio a ritroso ma soprattutto addentro al più riposto senso dei miti, degli archetipi ahinoi consueti, del gioco amaro dell’Io – e poi dei rapporti tra sessi, delle schermaglie amorose, del sogno eterno, svilente o nobile, di un grande amore che ci conduca all’Amore, al maiuscolo che in nuce anche noi serbiamo, proteggiamo o fecondiamo, essendone fecondati… La trovata (addirittura psicoterapica, per non dire sinestetica, dunque controestetizzante!) dell’approccio ermafrodita… intride e muove tutto il libro: che è poema in prosa e diario ininterrotto, referto psicoterapico (estroso Codice dell’Anima di marcata ascendenza hillmaniana – cioè in qualche modo ancora junghiana) e bozza in fieri o spunto teatrale, inchiesta di costume e digressione (sentenza?) finanche spirituale… “Sotto la luce verde Ermafrodito legge ad alta voce: / - La mia vita è un ritorno in fuga. / Ricerco con orgoglio d’esule / il racconto che mi manifesti”… Una trama, un mix, si direbbe oggi, di fascinose implicazioni e bizzarro snodo espressivo, prima ancora che cognitivo. E non a caso il testo, via via che procede, incombe o fluisce, come un Battello Ebbro o meglio una piena onirica a occhi aperti, raccoglie di tutto: detriti esistenziali e ossa abbruciate d’un amore inesausto, sperma in passione e ovuli ma fecondati, filosofemi semantici e anamnesi epocale – proprio nella tradizione della grande e più moderna poesia anglosassone che infatti è ben evocata (dalla Plath ad Anne Sexton, per intenderci, passando per il bianco spirito o fantasma della immensa Dickinson)… E alla fin fine è proprio la vis registica, l’ipotetico eppur tracciato treatment cinematografica a emergere in noi – come un bellissimo film intimista, anzi film e referto dell’intimo, una Maya desnuda tutta ancora da girare, da osare: “Il film sul ritorno della donna / nelle acque che perse / già prima di nascere”… Perché anche questa Venere minima, coi suoi retaggi d’ombra o guizzi abbacinanti da farfalla dell’invisibile, comprende ed esalta in fondo tutte le (vere) donne. (2010)
Stefano Giovanardi:
“Se è vero che il linguaggio poetico ha una funzione euristica per il soggetto questo può funzionare se l’effusione dell’io è tenuta a distanza. In questo senso non riesco a definire lirica la poesia di Antonella Zagaroli. Il suo centro cerca di stabilire una dialettica fra la presa di distanza necessaria per la comprensione di sé e del mondo e l’immersione nella soggettività e proprio da questo trae la sua sostanza. Anni fa la definii una poesia multistrati, una poesia che interroga se stessa, avrei dovuto aggiungere che interroga se stessa e il mondo. In ciò è la cifra di Antonella Zagaroli lavorare sull’interrogazione del mondo per arrivare ad una diversa declinazione dell’io che la genera.
Nella sezione Costruzioni cinematografiche di Venere minima ciò raggiunge la sua più chiara espressione. Questo che definirei poema epico mi ricorda la cinematografica sentimentale di Dino Campana proprio per la tendenza al superamento della dimensione lirica. Per la prospettiva storica sembra rifarsi a La ragazza Carla di Pagliarani”(2011)
Giorgio Patrizi:
La lunga militanza poetica di Antonella Zagaroli ha segnato un percorso significativo di ricerca sul linguaggio e sull’espressione che raggiunge risultati espressivi di grande intensità e originalità. Assumendo un corredo linguistico variegato e ricco di tonalità contrastanti (dal quotidiano all’aulico, dal lirico all’invettiva) il discorso poetico si snoda su una serie di immagini di forte pregnanza visiva e sonora, spezzando i modi tradizionali della sintassi per costruirsi un’efficacissimo strumento di riflessione, di denuncia, di accoglienza e di polemica.
Stralcio da recensione in fieri
(2011)